Il blog di Michele Perucci

"Su scolte alle torri guardie armate
attente in silenzio vigilate"
(antico inno comunale di Assisi)

giovedì 29 novembre 2012

Vince il ticket?


Matteo ieri sera nel "duello" non ha cercato i vendoliani, necessari per vincere, né ha ricordato la possibilità di iscriversi tra oggi e domani, necessaria per allargare la platea dei votanti:l'aria mi pare quella di un gentlemen agreement , non certo di una fuoriuscita personalistica in caso di sconfitta. 

Accordo che potrebbe concretizzarsi in un ticket premier-vicepremier praticamente imbattibile,con un PD che già ora è altra cosa rispetto al grigio passato.
(E comunque ri-voto Renzi, ché sennò stavamo ancora a caro amico...)




giovedì 15 novembre 2012

Avevo vent'anni nel '77. Alle primarie voto Renzi


(pubblicato da Gazebos! il 14.11.12)


C’è un grande rimosso collettivo nella nostra storia recente. Accanto ai misteri d’Italia, alle stragi e ai singoli tragici episodi – da Piazza Fontana al caso Moro- vive sommerso nelle memorie d’una generazione un sentimento e un impegno che tutti ci coinvolse: l’antagonismo fiorito e sovversivo del Movimento del ’77.

Misconosciuto dai fratelli maggiori, quegli  “zombie” sessantottini che noi spregiavamo in blocco, fattisi negli anni spocchiosa classe dirigente –e talora digerente. Leaderini stalinisti, i katanga di Avanguardia Operaia, Servire il Popolo e gruppetteria pestante.
Lotta Continua, più duttile e parolaia, il giornale pane quotidiano, sfogatoio ardente del movimento. Oppure  raffinati esegeti marxiani, intellòs iperuranici, Rossanande Manifeste e Castelline pduppine d’altera inarrivabile bellezza.
A un dipresso da noi, epperò da noi respinti – rottamati - con la veemente purità d’una fratellanza feroce, turgida d’adolescenze desideranti.
Soprattutto, movimento totalmente in/compreso, letteralmente ex-traneo, immediatamente s/comunicato dal grigiore austero e repressivo dei Pecchioli e del palindromo Asor, quel PCI all’apice dei trionfi elettorali e già così incartato nel compromesso berlingueriano, nel vitreo terrore di un epilogo cileno: per poi ritrovarsi con le monetine dell’epilogo craxiano.  
Cacciammo Luciano Lama –il grande sindacalista- nel febbraio, un marziano supponente sbarcato alla Sapienza: “Lama non l’ama nessuno”, “I Lama stanno in Tibet”. Con la creativa ironia e con la forza autonoma della contrapposizione, anche generazionale. Studenti già allora precari e proletari urbani, insieme contro tutti.
Kossiga ci mise del suo, e già nel marzo intorno tutto era incattivito e plumbeo: prima Francesco Lo Russo, poi a maggio Giorgiana. La bellezza creativa e orgogliosamente altra di una generazione compatta come mai prima – esclusi erano fascisti, protociellini e figgiciotti – fu spinta violentemente verso il nulla assassino della lotta armata. A settembre a Bologna, poi Walter Rossi: e tutto era già terminato, iniziava il piombo di anni orribili che non possono, non devono esser datati a partire da quella primavera, che anzi  si pose inizialmente come possibile e vitale via d’uscita, alla follia militarista delle ben preesistenti BR e alla cecità congiunta del compromesso storico.
Rileggo e riemergo a fatica da quelle immagini. C’è chi dice che un terzo di quella gioventù finì con le P38, un terzo si distrusse con l’eroina negli 80s e un terzo è sopravvissuta sommersa: nel sociale, nel volontariato, all’estero o nella professioni della comunicazione allora nascente.  Poche le proposte politiche negli anni in grado di scuoterla; spesso troppa la forza di quei ricordi e la pochezza del ventennio appena trascorso.
Matteo Renzi non è la palingenesi; il solo nominarlo in questo contesto mette un po’ a disagio. Eppure, se si vuol provare a riaprire gli occhi:  a quello stesso PCI che non visse né Bad Godesberg né la caduta del Muro, a chi ha fatto la Bolognina, la Cosa 1, la Cosa 2 senza mai pagare lo scotto della storia, dopo la stagione della destra gozzovigliante il piglio coraggiosamente rottamatore del Sindaco di Firenze ha dato la scossa più seria.
Già oggi Veltroni e D’Alema, proconsoli di quella FGCI che già nel ’77 voleva fermare il vento con le mani, non sono più presentabili in società, non hanno più altro da dirci. Per non dir di Marini Bindi& Co., im-popolari ostaggi di se stessi e simulacri d’una alta tradizione politica.
Chiaro che poi ci voglia una solida cultura di rinnovamento istituzionale – dalla legge elettorale uninominale maggioritaria ad un Presidente che la smetta di fare il Re senza essere eletto; chiaro che l’intuizione politica d’un PD maggioritario è quella giusta (basta Casini! ); evidente che le politiche del montismo non potranno essere acriticamente assunte, e che il riferimento Obamiano anche in questo può bene orientarci.
Ma ci voleva un primo passo: che si chiama Matteo, ha 37 anni ed è un ragazzo fortunato, a non aver vissuto gli anni di piombo; meno fortunato, a non aver goduto dell’unica stagione rivoluzionaria del dopoguerra, di un sentimento collettivo con punte di lancinante bellezza, di una stagione creativa da riprendere e rivalutare, dopo che le ingessature e gli odi incrociati del potere han cercato di nasconderla sotto lo zerbino della storia.

P.S. :
 ho la sensazione, direi la quasi certezza, che loschi residui del ’77 si annidino dietro il fantastico sito FB  “Marxisti per Tabacci” …

lunedì 12 novembre 2012

Basta Cl, basta scorciatoie



Paolo Rodari prende atto giustamente di una “scelta spirituale” che Càrron – e soprattutto i crudi  fatti – stanno imponendo alla CL politicista, modello Lombardia. 

L’Elefantino recrimina, rimpiangendo i più ruiniani movimenti da battaglia, quelli che più che presenza, sfondamento, come certi centravanti d’antan.

Quel che non convince, nella riflessione di Rodari, è l’individuazione per il futuro della Chiesa di una “uscita di sicurezza” nel modello pentecostale: il Rinnovamento dello Spirito,  movimento cattolico ricalcato sui pluridecennali successi dei protestanti  latinoamericani , non è portatore di quella novità che possa collocarsi nel solco ratzingeriano. Il quale auspica sì un autentico rinnovamento spirituale della Chiesa universale, ma entro le ben salde colonne di una dialettica tra fede e ragione, che vede nella Grazia agostiniana un afflato di Dono non facilmente affiancabile  agli entusiasmi da stadio alla padre Marcelo.

Non vi sono scorciatoie, sul crinale affilato da cui assistiamo all’impari scommessa di Benedetto. Insieme a  Woityla è ormai terminata  la lunga stagione di tutti i Movimenti, al di là delle stesse simpatie di Papa Ratzinger per questo o quell’altro carisma.

E’ il tempo del rischio e della strada, del Resto d’Israele - la Chiesa universale – che nel già e non ancora della storia cerca umilmente di annunciare al cuore e alla ragione degli uomini un Dio vilipeso e massacrato, un Dio risorto e Vivente nell’Eterno. 






giovedì 8 novembre 2012

La Chiesa silenziosa dell'orso Benedetto



Una Chiesa defilata e un po’ dimessa?( cfr. Massimo Franco,C’era una volta un Vaticano). Rinnovamento spirituale, filo unico conciliarista, strategia minimalista e insieme di grande respiro, con la nuova enciclica e l’Anno della fede: la mission impossible di Benedetto XVI, nella pienezza del suo pontificato.
 Papa Ratzinger è andato oltre lospariglio ermeneutico sulla lettura del Concilio, egli vuole indicare Dio agli uomini  di questo tempo– in ciò  vede una  consonanza anche con l’ Islam, di cui pure ha evidenziato già a  Ratisbona la virulenta tendenza egemonica.  Per farlo accetta penitenziale anche una certa diminutio, e umilmente paga lo scotto tardivo della piaga pedofila dei preti . Dives in misericordia è l’enciclica di Woytila a lui più conforme, non certo le trionfali antropologie dellaVeritatis Splendor o le suggestioni sociali della Centesimus Annus.
Rimane fondamentale il ruolo del papato in questa fase, sola voce nel mondo che può ad esempio arrischiarsi a parlare – credibilmente - in Libano o  – come egli certo desidera - nella Siria martoriata. Affrettarsi lentamente il suo motto, l’orso teutonico di San Bruno il suo avatar, insieme affabile, solido e combattivo alla bisogna (do you know Baloo, fratellini e sorelline?). Il Sinodo in corso – sulla Fede! - è un passo decisivo, in bilico tra una collegialità un po’ inconcludente e l’opportuno consiglio dei più saggi per il Pontefice teoforo.
All’intorno, la desertificazione appare assai avanzata: ma l’ottimismo gaudioso di Roncalli corre sotto la pellaccia del plantigrado tedesco, a dispetto dei Santi e dei barbogi da gazzetta. Matrimoni gay, donne sacerdote, democrazia collegiale…Non sembra tanto questo il focus, per il piccolo gregge sognato da Joseph l’aspirazione è Altra: quando Cristo tornerà, troverà la fede sulla terra?

Benedetto ci prova, con i suoi ritmi e i suoi limiti – nel mentre, ad esempio, il Corpo Mistico è frantumato da quei Movimenti (dall’Opera a Cl, dai Neocatecumenali al Rinnovamento, passando per i Focolarini e Sant’Egidio) su cui per primo  il  Papa Polacco aveva puntato: sbagliarono entrambi, col senno – e le controtestimonianze - di poi.  E le parrocchie semivuote– dove ci sono, nell’Europa perplessa e eradicata- vivono lo scisma sotterraneo dei più,
mentre le moltitudini dei Papa Boys non sono che un lontano ricordo (a quando un bilancio coraggioso di quel lungo e forse  un po’ sterile pontificato?) . 
Nel mondo globalizzato, il martirio è ormai possibilità concreta per i cristiani, mal tollerati e perseguitati nel lontano e medio Oriente come nelle terre africane, un tempo arate dal vangelo dei bravi comboniani; nel Sudamerica si moltiplicano le sette del protestantesimo più hard, e si perde la memoria stessa delle Mission dei Gesuiti (ormai desaparecidos ovunque, buon ultimo il venerato Carlo Maria).
Di fronte a un simile strazio e a una tale titanica disfida, minutaglia appaiono le riduzioni politiciste alla Ruini, tutte ritagliate su di un piccolo Paese nel sud della piccola Europa, snobbata anche da Romney e da Obama. Ontologico è il ritmo della Chiesa, la Salvezza universale il suo obiettivo, Todi solo un grano di senape, una piccola città d’arte della Cristianità che fu. E ilConcistoro che si terrà in novembre per la prima volta non vedrà nomine né di cardinali italiani né di cardinali europei: solo porpore globali, Asia Africa Americhe per la Chiesa universale.
Pochi forse percepiscono la grandezza del tentativo ratzingeriano: i più si  attardano in dispute novecentesche su di un Concilio ormai acclarato – ché se Concilio non fosse stato, quanti fra noi dei ‘70s si sarebbero persi definitivamente! -  così come altrove ci si abbarbica a residui ideologismi. Per me il suo sogno nascosto è riuscire a veder crescere quei pochi, operare perché un ricambio di classe dirigente possa avvenire nella Chiesa sul metro sfidante della Fede, non più sull’abilità politica e diplomatica né secondo faglie e schieramenti  che appaiono superati dalle pressanti esigenze dell’ora.

"Ma direi che per ora un cane è sufficiente"


Family life e sogno americano nel discorso kennedyano di Obama

Questa notte, più di duecento anni dopo che una ex colonia si conquistasse il diritto di determinare il suo destino, il compito di perfezionare la nostra unione fa un passo avanti.

E va avanti grazie a voi. Va avanti perché avete riaffermato lo spirito che ha trionfato sulla guerra e sulla depressione, lo spirito che ha risollevato questa nazione dalle profondità della disperazione alle vette irraggiungibili della speranza, la certezza che anche se ciascuno di noi persegue i suoi sogni individuali, noi siamo una famiglia americana, e cresciamo o cadiamo assieme, come un’unica nazione e un unico popolo. Stanotte, in questa elezione, voi, il popolo americano, ci avete ricordato che la nostra strada è stata dura, il nostro viaggio è stato lungo, ma ci siamo rimessi in sesto, abbiamo lottato duramente, e nei nostri cuori sappiamo che per gli Stati Uniti d’America il meglio deve ancora venire.
Voglio ringraziare ogni americano che ha preso parte a queste elezioni, sia chi ha votato per la prima volta sia chi ha aspettato un sacco di tempo in fila. Tra parentesi, dovremmo trovare una soluzione a questa cosa. Sia che abbiate atteso sul marciapiede, preso il telefono, tenuto in mano un cartello per Obama o per Romney, voi avete fatto sentire la vostra voce, voi avete fatto la differenza.
Ho appena parlato con il governatore Romney e mi sono congratulato con lui e con Paul Ryan per la campagna combattuta in modo così duro. Possiamo aver combattuto intensamente, ma soltanto perché amiamo questa nazione profondamente, e perché teniamo così tanto al suo futuro. Da George a Lenore al loro figlio Mitt, la famiglia Romney ha scelto di ripagare l’America attraverso l’impegno nella sua amministrazione, e questa è l’eredità alla quale rendiamo il giusto onore e che applaudiamo stanotte. Nelle settimane a venire, spero anche di parlare con il governatore Romney su come possiamo lavorare assieme per far progredire la nostra nazione.




Voglio ringraziare il mio amico e partner di questi ultimi quattro anni, un “happy warrior” americano, il miglior vicepresidente che chiunque possa sperare di avere, Joe Biden.
E non potrei essere l’uomo che sono oggi senza la donna che ha accettato di sposarmi vent’anni fa. Permettetemi di dirlo pubblicamente: Michelle, non ti ho mai amato così tanto. Non sono mai stato così orgoglioso di vedere che anche il resto dell’America si innamora di te, come First lady della nostra nazione. Sasha e Malia, state crescendo sotto ai nostri occhi, diventando due giovani donne forti, intelligenti, bellissime, proprio come la mamma. E sono davvero fiero di voi. Ma direi che per ora un cane è sufficiente. 
Ho avuto in questa campagna il miglior team elettorale e i migliori volontari. I migliori. I migliori di tutti i tempi. Alcuni di voi erano nuovi, e alcuni di voi sono al mio fianco dal primo istante. Ma tutti voi fate parte della famiglia. Non importa che lavoro facciate o dove andrete dopo oggi: porterete con voi il ricordo della storia che abbiamo creato assieme, e avrete l’imperitura riconoscenza di un grato presidente. Grazie per averci creduto lungo tutta la strada, attraverso ogni collina, ogni valle. Mi avete sostenuto lungo tutto il percorso, e vi sarò sempre grato per quello che avete fatto per me, per il vostro incredibile lavoro.
So che le campagne politiche possono sembrare a volte insignificanti, persino sciocche. E che danno un sacco di munizioni a quei cinici che affermano che la politica non è nulla più di una gara tra ego, o il dominio di interessi particolari. Ma se mai avrete la possibilità di parlare con qualcuno che è stato ai nostri incontri, che faceva parte della folla, che s’accalcava attorno a un cordone di velluto in una palestra dell’high school, o se avete visto qualcuno lavorare fino a tardi in uffici elettorali di qualche piccola contea lontana da casa, allora scoprirete qualcosa di diverso. 
Sentirete la determinazione nella voce di un giovane organizzatore che sta lavorando per mantenersi al college e che vuole che ogni bambino abbia questa stessa opportunità. Sentirete l’orgoglio nella voce di un volontario che sta facendo porta a porta perché suo fratello è stato finalmente assunto quando la fabbrica automobilistica locale ha aggiunto un altro turno di lavoro. Sentirete il patriottismo profondo nella voce del coniuge di un militare, che sta al telefono fino a tardi per assicurarsi che nessuno di quelli che combattono per questa nazione debba mai lottare per avere un tetto sopra la testa al suo rientro a casa.


Ecco perché lo facciamo. Ecco che cosa potrebbe essere la politica. Ecco perché le elezioni sono importanti. Non sono insignificanti, sono fondamentali. Sono importanti. La democrazia in una nazione di 300  milioni di persone può essere rumorosa, confusionaria, complicata. Ognuno ha le sue opinioni. Ciascuno ha convinzioni fortemente radicate. E quando come nazione attraversiamo periodi difficili, prendiamo decisioni importanti, necessariamente creiamo passioni, e controversie.
Questo non cambierà dopo stanotte, non dovrebbe cambiare proprio. Queste discussioni sono il segnale della nostra libertà. Non possiamo dimenticare che mentre parliamo, persone in nazioni lontane rischiano la loro vita, in questo momento, per avere anche solo la possibilità di discutere sulle questioni che contano davvero, la possibilità di esprimere le loro preferenze così come abbiamo fatto noi oggi.
Nonostante tutte le nostre differenze, la maggior parte di noi condivide alcune speranze per il futuro dell’America. Vogliamo che i nostri figli crescano in una nazione dove possano avere accesso alle migliori scuole e ai migliori insegnanti. Una nazione all’altezza della sua eredità di leader globale nel settore tecnologico, della ricerca, dell’innovazione, con tutti i lavori e nuove attività che ne conseguono.
Vogliamo che i nostri ragazzi vivano in un’America che non sia schiacciata dal debito, che non sia indebolita dalla disuguaglianza, che non sia minacciata dal potere distruttivo di un pianeta che si sta surriscaldando. Vogliamo trasmettere una nazione sicura, rispettata e ammirata nel mondo, una nazione difesa dalle forze militari più forti che il mondo abbia mai conosciuto. Ma anche una nazione che sappia andare oltre a questo periodo di guerra con fiducia, per creare una pace che sia costruita sulle basi fondanti della dignità e della libertà per ogni essere umano.
Crediamo in un’America generosa, in un’America compassionevole, in un’America tollerante, aperta ai sogni di una figlia di immigranti che studia nelle nostre scuole, che giura sulla nostra bandiera. Al giovane della parte sud di Chicago che vede una vita giusto oltre l’angolo più vicino. Al figlio dell’operaio dell’industria di mobili in North Carolina che vuole diventare un dottore o uno scienziato, un ingegnere o un imprenditore, un diplomatico o persino un presidente – ecco qual è il futuro che speriamo. La visione che condividiamo. Ecco dove dobbiamo andare – avanti. Ecco dove abbiamo bisogno di andare.


Non saremo d’accordo, a volte litigheremo tantissimo su come arrivarci. Così come è sempre stato per più di duecento anni, il progresso arriverà a scatti. Non sarà sempre lineare. Non sarà sempre un percorso tranquillo. Riconoscere che abbiamo sogni e speranze in comune non basterà di per sé a sbloccare la situazione, risolvere i nostri problemi, non sostituirà il minuzioso lavoro con il quale si costruisce consenso o si fanno difficili compromessi necessari a far crescere questa nazione. Ma quel legame comune è ciò da cui dobbiamo partire.
La nostra economia si sta riprendendo. Sta finendo un decennio segnato dalla guerra. E’ appena finita una lunga campagna. E che io abbia conquistato il vostro voto o no, vi ho ascoltato, ho imparato da voi, e voi mi avete reso un presidente migliore. E con le vostre storie e le vostre lotte torno alla Casa Bianca più determinato e più ispirato di sempre per il lavoro che c’è da fare e per il futuro che ci attende.
Stanotte avete votato per l’azione, non – come al solito – per la politica. Ci avete eletto perché ci concentrassimo sul vostro lavoro, non sul nostro. E nelle settimane e nei mesi a venire mi aspetto di aprire un dialogo e lavorare con i leader di entrambi i partiti per discutere delle sfide che possiamo vincere solo lavorando assieme. Ridurre il deficit. Riformare il codice tributario. Emendare il sistema dell’immigrazione. Renderci liberi dal petrolio straniero. Abbiamo un sacco di lavoro da fare.
Ma questo non vuol dire che il vostro lavoro sia concluso. Il ruolo del cittadino nella nostra democrazia non finisce con il voto. L’America non si è mai affidata a quello che può essere fatto per noi. L’America si affida a quello che possiamo fare per noi, assieme, attraverso il processo a volte duro e frustrante, ma necessario, dell’autogoverno. Questo è il nostro principio fondatore. La nazione ha più benessere di qualsiasi altra, ma non è questo ciò che ci rende ricchi. Abbiamo l’esercito più potente della storia, ma non è questo ciò che ci rende forti. Le nostre università, la nostra cultura, sono invidiate da tutto il mondo, ma non è questo che continua a far arrivare il mondo presso le nostre coste.
Quello che rende eccezionale l’America sono i legami che tengono unita la nazione più variegata del mondo. La convinzione che il nostro destino sia comune; che questa nazione funzioni soltanto quando accettiamo che esistono certi obblighi l’uno verso l’altro e verso le generazioni future. La libertà per la quale così tanti americani hanno lottato e per la quale sono morti si accompagna a responsabilità così come ai diritti. E fra questi, l’amore, la carità, il dovere, il patriottismo. Ecco cosa rende grande l’America.

Stasera sono pieno di speranza, perché ho visto questo spirito al lavoro in America.L’ho visto nelle aziende familiari i cui proprietari preferiscono ridursi lo stipendio piuttosto che licenziare i vicini, negli operai che preferiscono diminuirsi le ore di lavoro piuttosto che vedere un amico restare senza lavoro. L’ho visto nei soldati che si arruolano di nuovo dopo aver perso un arto, e in quei Seal che si arrampicano correndo sulle scale, nel buio della notte, nel pericolo, perché sanno che dietro di loro hanno un compagno che guarda loro le spalle. L’ho visto sulle coste del New Jersey e di New York, dove i leader di ogni partito e livello di governo hanno spazzato via le differenze per aiutare una comunità a riprendersi dopo lo scempio portato da una tempesta tremenda. E l’ho visto l’altro giorno a Mentor, in Ohio, dove un padre ha raccontato la storia della figlia di 8 anni, la cui lunga battaglia contro la leucemia sarebbe costata alla famiglia praticamente tutto quello che avevano, non fosse stato per l’approvazione della riforma sanitaria solo pochi mesi prima che la compagnia di assicurazioni smettesse di pagare per le cure. Ho avuto non solo l’opportunità di parlare con questo padre, ma soprattutto di incontrare la sua incredibile figlia. E quando ha raccontato alla folla che stava ascoltando la storia di quel padre, tutti i genitori nella stanza avevano le lacrime agli occhi, perché sapevamo che quella figlia avrebbe potuto tranquillamente essere la nostra. E so che ogni americano vuole per lei un futuro luminoso. Ecco chi siamo. Questa è la nazione che sono così orgoglioso di guidare come vostro presidente.
E stanotte, nonostante tutte le difficoltà che abbiamo attraversato, nonostante tutte le frustrazioni di Washington, non sono mai stato così speranzoso riguardo al futuro. Non sono mai stato così speranzoso riguardo all’America. E vi chiedo di sostenere questa speranza. Non parlo di cieco ottimismo, quel tipo di speranza che ignora l’enormità delle sfide future o gli ostacoli sul nostro cammino. Non parlo dell’idealismo illusorio che ci permette di stare a guardare da bordo campo o di sottrarci a una battaglia.


Ho sempre creduto che la speranza fosse quell’elemento testardo in ognuno di noi che insiste, nonostante la prova del contrario, nel credere che qualcosa di meglio ci attenda, se abbiamo il coraggio di continuare a provarci, a lavorare, a combattere.
America, io credo che assieme possiamo continuare a costruire sui progressi che abbiamo fatto, continuare a lottare per nuovi posti di lavoro e nuove opportunità e nuove sicurezze per la classe media. Credo che possiamo mantenere la promessa dei nostri fondatori, l’idea che se hai la volontà di lavorare duro, non importa chi sei o da dove vieni o che aspetto hai o chi ami. Non importa se sei di colore o bianco o ispanico o asiatico o nativo americano o giovane o vecchio o ricco o povero, abile, disabile, gay o eterosessuale, in America puoi farcela se hai la volontà di provarci.
Credo che possiamo costruire questo futuro assieme perché non siamo così divisi come potrebbe suggerire la nostra politica. Non siamo tanto cinici quanto ci ritengono i critici. Siamo più grandi della somma delle nostre ambizioni individuali, e siamo molto più di un insieme di stati rossi e stati blu. Siamo, e sempre saremo, gli Stati Uniti d’America.
E assieme, con il vostro aiuto e per grazia di Dio continueremo il nostro viaggio verso il futuro e ricorderemo al mondo perché viviamo nella più grande nazione della terra.
Grazie, America. Che Dio vi benedica. Che Dio benedica questi Stati Uniti d’America.

Barack Obama è stato confermato presidente degli Stati Uniti la notte del 6 novembre. Questo è il discorso pronunciato dopo la vittoria.
(traduzione di Marion Sarah Tuggey)

di Barack Obama